Violenza Economica: riconoscere l’abuso che la legge punisce

Non lascia lividi, ma ferisce l’anima. Non urla, ma soffoca in un silenzio carico di umiliazione. È la violenza economica, un’arma invisibile che trasforma il denaro da strumento di sostentamento a catena di controllo. Per anni è stata relegata a un “brutto carattere” o a una “gestione familiare conflittuale”, ma oggi la legge parla chiaro, squarciando il velo dell’ipocrisia.

Questa forma di prevaricazione si manifesta in modi striscianti e progressivi. Impedire al partner di lavorare, appropriarsi del suo stipendio, controllare ossessivamente ogni spesa, concedere una “paghetta” umiliante: non sono semplici litigi. Sono atti di dominio. L’aggressore non nega solo il denaro; nega l’autonomia, la dignità e la capacità di autodeterminazione della vittima, costruendo una prigione da cui è quasi impossibile fuggire.

Questi comportamenti non sono moralmente discutibili, sono illegali. Il Codice Penale italiano, all’articolo 572, è inequivocabile nel punire «Chiunque […] maltratta una persona della famiglia o comunque convivente». E il termine “maltratta” non si limita alla violenza fisica. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha da tempo chiarito che la condotta di maltrattamento si realizza attraverso una serie sistematica di atti vessatori che creano un clima di sofferenza e umiliazione. La violenza economica, con la sua capacità di generare uno stato di soggezione psicologica permanente, rientra a pieno titolo in questa definizione.

Questa visione è rafforzata a livello internazionale dalla Convenzione di Istanbul, un trattato fondamentale per la protezione delle donne. Il suo articolo 3 definisce la violenza come un atto che provoca o può provocare «danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica». La parola “economica” è lì, scritta nero su bianco, a sancire che privare una persona della sua indipendenza finanziaria è una violazione dei suoi diritti umani fondamentali.

Il comportamento criminale dell’abusante è la negazione stessa dei principi su cui dovrebbe fondarsi un’unione. Il Codice Civile, all’articolo 143, stabilisce che dal matrimonio deriva un obbligo reciproco di «assistenza morale e materiale» e che entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno secondo le proprie capacità, «a contribuire ai bisogni della famiglia». L’aggressore economico fa l’esatto contrario: non contribuisce, ma sottrae; non assiste, ma opprime, usando le risorse comuni come strumento per annientare l’altro.

Dimostrare questa forma di abuso è una sfida, ma non impossibile. La prova si costruisce pazientemente, come un mosaico, partendo dalle dichiarazioni della persona offesa e dalle testimonianze di chi ha percepito il suo stato di prostrazione. A queste si aggiungono i documenti: estratti conto che mostrano un controllo unilaterale, l’assenza di strumenti di pagamento per la vittima, o l’accensione di debiti a sua insaputa. Ogni elemento aiuta a dipingere quel quadro di oppressione sistematica che la legge punisce.

Rompere il silenzio è il primo, fondamentale passo verso la libertà. Riconoscere che il controllo economico è violenza è un atto di civiltà che restituisce potere a chi ne è stato privato. Perché nessuna relazione può dirsi sana se non è costruita sul rispetto reciproco e sulla libertà, anche e soprattutto quella economica. Una libertà per cui vale la pena lottare, per tornare a essere, finalmente, liberi e libere.