In Italia, il divario retributivo di genere rappresenta una criticità strutturale con impatti significativi e duraturi sulla vita economica delle donne. Le lavoratrici percepiscono in media buste paga inferiori del 20% rispetto ai loro colleghi uomini, una differenza che si aggrava ulteriormente nel calcolo delle pensioni, raggiungendo il 30%. Questo fenomeno, che si manifesta fin dal primo ingresso nel mondo del lavoro, è stato oggetto di analisi da parte di diverse istituzioni, evidenziando un quadro complesso che va oltre la semplice parità di mansioni.
Secondo l’ultimo report quadriennale di Eurostat, la differenza salariale nelle retribuzioni mensili lorde in Italia è pari al 20%, posizionando il Paese al di sotto della media dell’Unione Europea (24%). Se si considera la retribuzione annuale, il divario è del 21%, con un salario lordo medio di 34.777 euro per gli uomini a fronte dei 27.530 euro per le donne.
Tuttavia, come sottolineato dalla professoressa Luisa Rosti dell’Università di Pavia, un indicatore più completo è il “Gender overall earnings gap”. Questo parametro considera tre fattori: i guadagni orari, le ore retribuite e il tasso di occupazione. Secondo questo indicatore, il divario retributivo di genere in Italia raggiunge il 43% (contro il 37% della media UE). La causa principale di un valore così elevato nel nostro Paese è il divario nei tassi di occupazione, che contribuisce per il 55,4% alla disparità complessiva. Seguono il divario nelle ore retribuite (34,7%) e, in misura minore, il divario salariale orario (9,9%).
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, un titolo di studio elevato non elimina, ma anzi accentua, il divario. A livello europeo, il gender pay gap tra i laureati raggiunge il 25%; in Italia, questo valore è superiore alla media, attestandosi al 27%.
I dati dell’Indagine Almalaurea 2025 confermano che la disparità inizia già a un anno dalla laurea, con un divario del 13,9%. La retribuzione media mensile netta è di 1.536 euro per i laureati e di 1.323 euro per le laureate. Questo fenomeno è in parte riconducibile alla cosiddetta “segregazione formativa”: le donne sono sovrarappresentate in percorsi di studio meno remunerativi (come Educazione e Formazione o Psicologia), mentre gli uomini prevalgono in settori a più alto reddito (come Informatica e Ingegneria).
Anche all’interno delle discipline STEM, dove le laureate spesso presentano voti di laurea superiori e una maggiore partecipazione a percorsi formativi post-laurea, il divario retributivo persiste (11,9%). Ciò indica, come evidenzia la professoressa Rosti, che le competenze non sono l’unico fattore determinante, ma che pesano anche la tipologia di contratto (le neolaureate lavorano più in part-time e con meno contratti a tempo indeterminato) e un minor accesso a posizioni apicali.
Per contrastare questo fenomeno, l’Unione Europea ha introdotto la Direttiva 2023/970, che l’Italia dovrà recepire entro il 7 giugno 2026. La normativa introduce il principio di trasparenza salariale come strumento fondamentale. I datori di lavoro avranno l’obbligo di indicare la fascia retributiva negli annunci di lavoro e non potranno più chiedere informazioni sugli stipendi precedenti dei candidati.
I lavoratori avranno il diritto di conoscere i livelli retributivi medi, suddivisi per genere, per mansioni di pari valore. Qualora un’azienda presenti un divario salariale superiore al 5% non giustificato da criteri oggettivi, sarà obbligata ad avviare una valutazione congiunta con i rappresentanti dei lavoratori e ad adottare misure correttive, pena sanzioni significative. Come commentato dalla professoressa Carla Bassu dell’Università di Sassari, la direttiva mira a rendere effettivo un principio finora spesso solo formale, promuovendo un necessario cambio culturale nelle politiche aziendali.
Il gender pay gap accumulato nel corso della vita lavorativa si traduce in un divario pensionistico ancora più marcato. Secondo i dati OCSE, le pensionate italiane ricevono il 30% in meno rispetto ai pensionati, esponendole a un maggior rischio di povertà in età avanzata.
Dati Istat e INPS confermano la criticità. In Italia, solo il 28% delle donne percepisce una pensione (contro una media UE del 40,7%), e nella fascia 65-74 anni quasi il 27% delle donne non lavora e non ha alcuna pensione (contro il 5,7% degli uomini). L’ultimo rapporto INPS (2025) evidenzia che, pur costituendo il 51% dei pensionati, le donne percepiscono solo il 44% dei redditi pensionistici totali. La pensione media lorda mensile per gli uomini nel 2024 è stata di 2.142,60 euro, una cifra superiore del 34% rispetto a quella delle donne, ferma a 1.594,82 euro.
Fonte: https://24plus.ilsole24ore.com/art/quanto-sarebbe-pagata-donna-se-fosse-uomo-AH8Z21gC?utm_cmp_rs=fascia24